L’EUROPA RISCHIA UN’ALTRA FUKUSHIMA

di Giovanni Masini. Fotografie di Ivo Saglietti.

Da Doel (Belgio).
Cosa ha spinto il Comune di Aquisgrana, nella Germania occidentale, a distribuire gratuitamente pillole di iodio in tutta la regione? Da settembre le autorità della città tedesca hanno avviato un programma di prevenzione della durata di due mesi per contenere i danni collaterali “in caso di grave incidente nucleare”. 
Una mossa analoga a quella dei Paesi Bassi, che nelle stesse settimane hanno iniziato a distribuire pillole di iodio – principale difesa per l’organismo e in particolare per la tiroide contro le radiazioni – a tre milioni di cittadini.
A scatenare le preoccupazioni di tedeschi e olandesi le due centrali nucleari di Doel e Tihange, in territorio belga ma molto vicine ai confini. Due centrali nucleari risalenti agli anni Settanta che da qualche tempo destano più di una preoccupazione. Non è un caso, infatti, che la decisione di Aquisgrana e L’Aia segua di pochi mesi la pubblicazione di indagini e studi scientifici che gettano una luce inquietanti sulle condizioni di sicurezza dei due impianti belgi.

Le denunce della comunità scientifica

Da anni la comunità scientifica internazionale si interroga sulle ragioni della presenza di alcune crepe nelle pareti metalliche, spesse 20 centimetri, dei recipienti in pressione del reattore 3 alla centrale di Doel e del reattore 2 in quella di Tihange. Fra gli altri, uno studio di due professori della celebre università di Lovanio, René Boonen e Jan Peirs, ha messo in luce come le spiegazioni ufficiali fornite dall’Agenzia federale belga per il controllo dell’energia nucleare (Fanc d’ora in poi, ndr) per giustificare la crescita di queste crepe in numero e dimensione non siano sostenibili da un punto di vista scientifico.


I recipienti dei reattori sono crepati: le fratture continuano ad espandersi e rischiano 
di provocare una catastrofe nucleare.


Contattati da Gli Occhi della Guerra per ottenere spiegazioni, però, i due accademici si sono rifiutati di rispondere, trincerandosi dietro il silenzio stampa per “generare un clima di buona volontà”. Eppure il tema è cruciale, specialmente in un Paese in cui il nucleare garantisce ben il 60% dell’approvvigionamento energetico totale.
Forse non è un caso che a fine settembre il rettore di Lovanio Luc Sels, dalle colonne dell’importante quotidiano Standaard, avesse lanciato un appello agli accademici perché “smettano di fare grandi dichiarazioni” attraverso la stampa.

Il riferimento, con ogni probabilità, è ad interventi come quello – pubblicato pochi giorni prima sullo stesso giornale – con cui il professor Walter Bogaerts, docente di ingegneria dei materiali e di ingegneria nucleare nel medesimo ateneo, chiedeva la chiusura immediata dei due reattori in questione basandosi, fra l’altro, proprio sulle ricerche di Boonen e Peirs.

A differenza dei giovani colleghi, però, Bogaerts non rifiuta di farsi intervistare. E anzi ribadisce, argomentandole ulteriormente, le proprie tesi.

Le crepe

Le crepe all’interno dei recipienti in pressione vennero notate per la prima volta nel 2012 ma dopo alcune ispezioni ai reattori fu concessa l’autorizzazione per continuare l’attività. 
Da subito vennero identificate come hydrogen flakes, fratture nel materiale metallico naturalmente dovute a processi chimici di trasformazione dell’idrogeno. “La dimensione normale delle hydrogen flakes è quella di un’unghia, mezzo centimetro per un centimetro – spiega il professor Bogaerts – Ma nel 2012 ne furono trovate alcune grandi anche quattro centimetri. E nuove ispezioni effettuate nel 2014 iniziarono a rilevare una crescita di queste fratture, sia in numero che in dimensione.”


In effetti il secondo round di ispezioni fece registrare la bellezza di 13047 crepe a Doel e 3149 a Tihange: un aumento a doppia cifra, in percentuale, rispetto a due anni prima. Non solo. Le crepe più grandi – che per fortuna corrono parallele e non perpendicolarmente alle pareti – nel 2014 non erano più di quattro centimetri ma addirittura di nove. 
Dopo ulteriori esami svolti nell’ultimo anno, la Fanc ha annunciato sul proprio sito ufficiale che “non vi erano evoluzioni” nella situazione delle hydrogen flakes. “Grazie all’intervento di Greenpeace Belgium, però – spiega Bogaerts – la Fanc ha dovuto pubblicare un rapporto commissionato all’agenzia francese Areva secondo cui anche rispetto al 2014 sono state trovate nuove fatture e che altre si sono ingrandite.”

Secondo Bogaerts – che in questo contesta la versione ufficiale fornita dalle autorità belghe, che a più riprese hanno sostenuto che si trattasse di crepe già esistenti e non rilevate nelle precedenti ispezioni – un tale aumento può essere spiegato “solo con una crescita delle crepe durante le operazioni”. Una teoria resa ancora più inquietante dal fatto che, dopo ogni ispezione, i reattori hanno sempre ottenuto l’autorizzazione a lavorare.


Contattata dagli Occhi della Guerra, la Fanc non ha fornito alcuna risposta e alcun chiarimento. Eppure si tratta di una questione assai delicata, giacché se le crepe dovessero collegarsi in modo massiccio si potrebbe verificarsi una fuoriuscita del materiale contenuto all’interno del reattore, con conseguenze inimmaginabili. La centrale di Doel, in particolare, sorge alla periferia della città di Anversa, al centro di un’area metropolitana che conta centinaia di migliaia di abitanti. 
A pochi chilometri dai reattori, come non bastasse, si estende l’enorme porto della città fiamminga, con raffinerie ed industrie petrolchimiche fra le maggiori d’Europa concentrate attorno alla centrale. 
Centrale che, secondo i gruppi ecologisti e secondo una percentuale crescente di scienziati, rappresenta una vera e propria pentola bomba a orologeria nel cuore dell’Europa. Che preoccupa olandesi e tedeschi ma anche un numero sempre maggiore di belgi.

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