l segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres, si è detto ieri “molto preoccupato per il fatto che lo spazio per la protezione dei rifugiati in Ue si stia restringendo”. È lecito supporre che la sua preoccupazione derivi dalla scelta del ministro dell’Interno italiano,Matteo Salvini, di chiudere i porti alle navi delle Ong che trasportano migranti.
Ma chissà se lo stesso sentimento attraversava l’animo di Guterres anche nel recente passato, quando altri Paesi europei chiudevano i propri porti lasciando all’Italia l’onere dell’accoglienza delle imbarcazioni cariche di donne, bambini e uomini disperati.
Era il 3 luglio 2017, nemmeno un anno fa, quando a Parigi si svolgeva un vertice tra i ministri dell’Interno di Francia, Germania e Italia e Dimitris Avramopoulos, commissario Ue per le migrazioni.
Al centro dell’agenda il dossier migranti, con la proposta dell’allora capo del Viminale, Marco Minniti, di farli sbarcare non solo in Italia, ma anche in altri porti europei. Una richiesta di mutuo soccorso in piena sintonia con i principi dell’Unione.
I “porti sigillati” della Francia. La richiesta dell’Italia, tuttavia, non fece breccia nel cuore degli altri Paesi che affacciano sul mar Mediterraneo. Il fallimento venne registrato nero su bianco dall’attacco dell’articolo di Repubblica: “Francia e Spagna si dicono pronte a sigillare i loro porti”.
Il presidente francese Emmanuel Macron (cui è stata affibbiata l’etichetta del sincero liberale, non del populista) ci tenne a sottolineare che non può essere abbandonato “l’indispensabile mantenimento delle nostre frontiere”.
Gli fece eco il vice-sindaco di Marsiglia, Dominique Tian, che disse chiaramente: “No all’apertura del nostro porto alle navi umanitarie che soccorrono i migranti nel Mediterraneo, se ogni settimana facessimo entrare navi con centinaia se non migliaia di migranti saremmo nell’incapacità totale di alloggiare queste persone.
Perché una volta sbarcate, queste persone bisogna alloggiarle, ma non abbiamo i mezzi, non possiamo accogliere dei migranti in queste condizioni”. Proprio Oltralpe, del resto, il clima nei confronti di chi fugge dall’Africa è molto rigido.
Lo testimonia quanto avvenuto a Bardonecchia a marzo, in mezzo alla neve, quando i gendarmi francesi hanno scaricato una donna nigeriana incinta, gravemente malata e respinta alla frontiera, spirata dopo qualche giorno in un ospedale di Torino dopo aver dato alla luce il figlio.
L’eco di quel modus operandi è poi giunta fino a Parigi: il 23 aprile l’Assemblea Nazionale ha infatti votato una legge più restrittiva sull’asilo e l’immigrazione, la quale prevede di facilitare le espulsioni.
Spagna “fortezza inespugnabile” per i migranti. Espulsioni che nella confinante Spagna si tingono di scontro politico. Nell’aprile scorso il gruppo di sinistra Podemos al Senato ha accusato il Governo di “nascondere i respingimenti di massa non registrandoli, in modo da non lasciarne traccia e non dover affrontare le critiche e soprattutto i procedimenti giudiziari contro questa pratica, inclusi i frequenti richiami delle Nazioni Unite e di numerose organizzazioni non governative e associazioni umanitarie sia spagnole che internazionali”.
E ancora, il 22 maggio Francisco Fernandez Marugan, defensor del pueblo spagnolo (colui che vigila affinché vengano assicurati i diritti dei cittadini nel rapporto con lo Stato) denunciava che diversi profughi dei centri di internamento per stranieri (Cie) di Madrid sono stati espulsi “senza aver avuto la possibilità di presentare la richiesta di asilo o comunque di accedere al procedimento previsto in questi casi”.
Fonti governative di Madrid, d’altronde, avevano fatto trapelare la risposta negativa alla proposta italiana di far sbarcare le navi delle Ong anche nei loro porti. “Ripartire i migranti fra i Paesi del sud non è la soluzione – dissero -.
Ci deve essere una risposta europea davanti a una situazione eccezionale, come si è fatto per la crisi dei rifugiati che arrivavano sulle coste greche”. Il tema dell’accoglienza per la Spagna è alquanto spinoso.
A tal proposito basta citare l’organizzazione Open Migration, che nel marzo 2016 descriveva le frontiere con il Marocco di Ceuta e Melilla come “fortezze inespugnabili” diventate “l’emblema della chiusura” dei confini iberici.
E la stessa organizzazione ricordava un episodio di oltre dieci anni fa, quando “11 migranti rimasero uccisi dal fuoco delle guardie di frontiera mentre provavano a scavalcare le reti”. Da quel giorno, tuttavia, riferiva Open Migration, “la violenza non è diminuita”.
Diritto incerto. Il cambio di atteggiamento da parte della Spagna, che si è offerta di accogliere i 629 migranti trasportati dall’imbarcazione dell’ong “Sos Mediteranee”, non chiuderà la vicenda della Nave Aquarius.
Al contrario, essa costituirà un precedente, tale da rendere necessario (e urgente) un intervento del legislatore europeo e di quello internazionale. La situazione normativa, al momento è complessa, e il caso aperto dall’Italia ha messo a nudo le lacune dell’ordinamento marittimo su situazioni di questo genere.
Le fonti internazionali. Sul punto è intervenuta la portavoce della Commissione europea, Natasha Bertaud, spiegando che “in base al diritto internazionale la decisione sullo sbarco è lasciata al Paese che coordina l’operazione di ricerca e soccorso, non specifica se debba essere il Paese stesso o quale debba essere”.
Il termine Sar (“search and rescue”) indica l’area entro cui ciascuno Stato, sulla base della Convenzione di Amburgo del 1979, si impegna ad assicurare l’attività di ricerca e salvataggio in mare. L’area di competenza dell’Italia è di 500 mila chilometri quadrati.
L’indicazione del cosiddetto “porto sicuro”, in genere il più vicino al punto del soccorso, spetta a chi ha coordinato l’attività Sar. Lo sbarco avviene, di solito, all’interno del territorio dello Stato che ha diretto l’attività di salvataggio. In mancanza di una norma specifica si tratta, tuttavia, di una prassi, frutto dell’interpretazione prevalente del diritto internazionale.
La Convenzione di Amburgo, in ogni caso, è spesso disattesa. Tra i firmatari ci sono, infatti, anche Tunisia e Libia, Paesi che raramente intervengono costringendo le nostre autorità ad agire al di fuori della propri confini.
Altra fonte è la Convenzione di Montego Bay, considerata la carta Onu per i diritti del mare. Il trattato, cui hanno aderito 164 Stati, prevede che ogni nazione costiera debba organizzarsi per assicurare la ricerca e il soccorso sulla base di autonomi accordi regionali.
Tuttavia esso nulla chiarisce circa l’obbligo di far attraccare una nave (come Aquarius) non in avaria. La stessa Corte europea per i diritti dell’uomo, nelle sue sentenze, non ha stabilito una regola univoca per via giurisprudenziale.
Nazionali. A livello nazionale c’è l’articolo 2 della Costituzione, che, fra le altre cose, impegna la Repubblica a richiedere “l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”. Enunciazione nobile ma di principio. Il codice della navigazione, da parte sua, punisce con la reclusione chi “omette di cooperare con i mezzi dei quali dispone al soccorso di una nave, di un galleggiante, di un aeromobile o di una persona in pericolo”. Nulla è previsto, però, per il caso in cui non esista una situazione di oggettivo rischio.
Ong. Chiudiamo la rassegna con il Codice di condotta delle Organizzazioni non governative, voluto dal ministro Minniti e approvato anche dall’Ue, il quale prevede che le navi delle Ong completino l’operazione di salvataggio sbarcando le persone a bordo “in un porto sicuro sotto il coordinamento dell’Imrcc competente”, salvo in particolari situazioni di emergenza. Fonte: interris
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